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Illustrazione a cura di Ester Baroni

ALTERABILE: ALTERARE UN’IDEA DI ALTERITA’

Strabarriere intervista l’associazione culturale Alterabile

Noi di Strabarriere abbiamo intervistato Giorgio, laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Torino e attualmente iscritto ad un master in Sociologia. Giorgio ricopre un ruolo amministrativo nell’Ateneo torinese, e ha indipendentemente seguito il corso «Clinica legale: disabilità», attivo per gli studenti del Dipartimento di Giurisprudenza. In questa breve intervista ci presenterà la tematica della disabilità, partendo da «Alterabile», associazione culturale di cui è membro e co-fondatore.

Allora iniziamo parlando un po’ della vostra associazione. Come nasce l’associazione?

«Alterabile» è un’associazione culturale che nasce tra un lockdown e l’altro del 2021 sulla spinta della «Clinica legale: disabilità» e dall’esigenza di ampliare il discorso che si fa normalmente sul tema, andando non tanto ad individuare i bisogni delle persone con disabilità, quanto a comprendere da dove essi hanno origine e come mai devono essere soddisfatti. All’interno dell’associazione si crea un incontro di persone normodotate e persone disabili, proprio per creare quella visione di insieme che permette di elaborare ciò che la disabilità significa. Molto spesso una persona normodotata ha bisogno del punto di vista della persona con disabilità per comprendere bisogni che altrimenti non sarebbero evidenti, ma al tempo stesso è il secondo a necessitare del primo per completare questa visione a tutto tondo della disabilità. Noi, per questo motivo, non facciamo proposte ma proponiamo domande, di modo da «fluidificare il pensiero», come direbbe qualche filosofo, perché, al giorno d’oggi, problematizzare la questione della disabilità serve più che sottolineare una volta ancora i bisogni, già abbastanza evidenti, delle persone disabili.

Nel pratico di cosa vi occupate?

È nostra intenzione elaborare dei testi, ad esempio un manuale sul diritto della disabilità, con l’obiettivo di comprendere, e non certo di modificare, la situazione attuale. Con questo non vogliamo creare un diritto speciale come il diritto minorile, ma sottolineare come il diritto sia influenzato dalla disabilità; riflettere a partire dalla disabilità. Non sono semplici rivendicazioni: per quelle ci sono associazioni più strutturate e adeguate al compito, con cui noi, tra l’altro, dialoghiamo e a cui diamo consulenza, ma è più un tentativo di creare una «teoria della vita indipendente», andando a capire cosa la politica propone, anche quella più spicciola.

Ecco, a livello di politica spicciola, comunale, ci sono degli esempi virtuosi di implementazione della vita indipendente?

Bisogna ammettere che si lavora attivamente, anche se le risorse sono quelle che sono, i fondi sono limitati. E bisogna anche ricordarsi che la materia di cui ci occupiamo è una materia di competenza regionale e, a livello regionale, la ricezione della legge quadro sulla disabilità [legge 227/2021 nda] sembra procedere nel verso giusto. I progetti per la vita indipendente ci sono e sono buoni, attendiamo ora la loro attuazione. Un esempio, ormai già in atto da qualche anno, è il servizio di buoni taxi che purtroppo ha subito varie trasformazioni. Questa iniziativa offriva, quando ne beneficiavo personalmente, dei voucher per viaggi in taxi con una certa libertà: l’erogazione avveniva a partire da condizioni scelte dall’erogatore del servizio, su base mensile, e poteva subire degli incrementi per ragioni di studio e di lavoro, con un piccolo contributo da parte dell’utilizzatore.

Visto che abbiamo parlato di mezzi di trasporto, gli altri mezzi pubblici comunali sono ormai tutti accessibili?

Sì sono accessibili, anche se non tutti, ad esempio alcune vetture della linea 16. C’è però un altro discorso che andrebbe affrontato e che riguarda la fruizione effettiva. Alcuni mezzi sono molto affollati e gli spazi riservati ai disabili spesso vengono occupati dagli altri passeggeri. Questo scarto tra come è pensato il servizio e come effettivamente funziona non riguarda solo i mezzi di trasporto. Un altro esempio simile riguarda l’accessibilità degli edifici. Le entrate riservate alle persone con disabilità spesso sono entrate laterali, secondarie, i montascale difficili da chiamare e le reception a cui rivolgersi per avere informazioni non immediatamente visibili e raggiungibili. Normativamente siamo un paese avanzato, tuttavia nella prassi ci sono ancora difficoltà residue che non si conoscono e, proprio perché non si conoscono, sono ancora più complesse da affrontare. Un altro esempio sono le macchine parcheggiate sui marciapiedi. Serve proprio quell’ampliamento di visione di cui parlavamo all’inizio, perché molte cose non sono esperite da tutti. Più volte mi è capitato di sentirmi dire «stando con te ho notato quanti gradini ci siano in giro per la città». E l’associazione va proprio incontro a questa esigenza. Un ultimo esempio, e concludo, riguarda il mio posto di lavoro, l’Università. Le porte antincendio sono molto pesanti, non per creare disagi alle persone disabili, ma perché la normativa le prevede così. Purtroppo, talvolta ciò che è a norma è faticoso per persone che nella norma non rientrano, permettetemi questo gioco di parole, e noi dobbiamo rivendicare questa diversità.

Ritieni sia necessario politicizzare i bisogni delle persone con disabilità?

Non sempre, o meglio, è necessario in quanto tutto è politica. L’associazione, occupandosi della tematica, deve seguire cosa succede, anche a livello di politiche nazionali. Un esempio è l’utilizzo dei fondi stanziati del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Bisogna conoscere i progetti a livello statale, ma non è necessario schierarsi con un partito piuttosto che con un altro. Abbiamo notato sia una tematica abbastanza trasversale, sebbene, sin dalla sua nascita col Governo Conte I, il Ministero per le disabilità è un ministero senza portafoglio, quindi con limitata capacità di spesa. Possiamo dire che per tanti, troppi anni la disabilità è stata una tematica marginale e che avere un ministero dedicato è comunque un passo in avanti.

A livello culturale come viene percepita la disabilità? E a questo possiamo collegare una tematica attuale come quella dell’inspiration porn?

Da quel punto di vista la strada è ancora lunga. Più volte ho sentito commenti, anche non cattivi, che lasciavano trasparire l’idea che le persone disabili non lavorino e vadano solo a passeggio, non abbiano obblighi o legami al di fuori della famiglia di origine. A risentire di questa visione è l’accessibilità stessa degli spazi. Per quel che riguarda invece l’inspiration porn, è evidente che ci sia una pesante mediatizzazione di determinate figure. Va detto che può essere veramente fonte di ispirazione per molte persone, ma al tempo stesso c’è il rischio di creare un obbligo di eccellere in cose che sono più faticose, come lo sport. È inevitabile che una quota di «abilismo» sia interiorizzata dalla persona disabile e, se la persona è contenta ed è spronata, questo può avere dei risvolti positivi. È comunque importante che non passi il messaggio che essere più forte dei propri limiti sia corretto: potenziare, curare e riabilitare non è la chiave per risolvere i problemi delle persone disabili e limare queste differenze non permette di cambiare la situazione. Infatti, il nome della nostra associazione – «Alterabile» – non è da intendersi come alterità, ma come volontà di alterare, cambiare il modo di pensare delle persone che pensano alla tematica della disabilità, perché l’alterità continua a sussistere.

Per concludere, a livello linguistico come viene trattata la disabilità?

Dare dell’«handicappato» come forma di insulto è ancora comune, è brutto e stigmatizzante. Spesso viene fatto senza pensarci. Più volte ho sentito persone, anche in mia presenza, che si schernivano definendosi «ritardati». E questo, anche se detto in buona fede, denota come si voglia utilizzare la forma di disabilità come un’etichetta infamante. Va anche detto che non c’è un generale consenso su che termine usare per indicare la persona affetta da disabilità. Io, personalmente, aborro la locuzione «diversamente abile». Ci sono diverse correnti e anche proposte recenti, ad esempio «disabilitato», per esternare questa disabilità e non identificare con essa la persona. Ovviamente suonerebbe un po’ strano. Di sicuro, non si può fare l’elenco di tutte le disabilità. Qui subentra anche un discorso di pragmatica necessaria, che può portare ad un’ossificazione terminologica, anch’essa necessaria. Una distinzione che ritengo abbia senso può essere fatta utilizzando il termine «persone disabili», se si parla in prima persona, e «persone con disabilità», se è una persona normodotata a riferirsi al soggetto che ne è affetto, con l’idea di “tenere viva questa tensione” ed evitare quel processo di normalizzazione di cui parlavamo prima. Si può concludere dicendo che il processo di destigmatizzazione del termine deve iniziare il più in fretta possibile. Il linguaggio comunque serve a generalizzare e comunicare, e una distinzione come quella accennata sopra può essere il giusto compromesso tra mantenimento dell’identità e esigenze comunicative.

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