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Ci lasciamo le nostre impronte

Una mattina all'Ufficio Immigrazione della Questura di Torino

di Frédérique Gélinas e Pietro Mellano
Fotografie a cura di Frédérique Gélinas
Con la collaborazione di Roberta Longo

La giornata inizia presto all’Ufficio Immigrazione di Corso Verona e chi lo visita sa che dovrà aspettare molte ore in piedi, che sia al freddo, sotto la pioggia o spossato da un sole cocente. 

«È bruttissimo, devi alzarti e venire a quest’ora se no non passi mai»

 

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Ci troviamo in zona Aurora, a un centinaio di metri dalla nuova e avveniristica sede della Lavazza, simbolo di una città che “funziona” e che, sotto il nome fuorviante di “riqualificazione”, sposta sempre di più i ceti meno abbienti verso i margini della città. Vicino all’ex mercato dei fiori c’è l’Ufficio Immigrazione, che si affaccia su una piazzetta triangolare, anzi, un parcheggio, dove ogni mattina si affollano centinaia di persone. Le motivazioni sono le più disparate: dal deposito delle impronte, al ritiro (emblematico) del permesso di soggiorno, alla semplice richiesta di informazioni. La coda però è una sola: interminabile, disordinata ed esasperante.

«Devo sempre perdermi giorni di lavoro per venire qui, senza sapere se accetteranno i miei documenti o no… è sempre un’angoscia aspettare di sapere se andranno bene»

Le persone in coda ci notano, sono curiose del motivo che ci porta qui e, una volta compresa la nostra volontà di provare a dar loro voce, accorrono numerose. Al sentire le nostre domande, si preoccupano un po’: perché questo luogo merita tutta questa attenzione? Gli abitudinari, dopo anni di esperienza, conoscono bene il motivo della nostra presenza e sui loro visi si disegna  qualche sorriso complice. Loro sanno. Chi è là per la prima volta ha avuto la fortuna di essere stato avvisato, da qualche amico,  di presentarsi in anticipo. Alcuni sono venuti in gruppo, altri si sono portati un libro.
Benché la situazione pandemica abbia aggravato la già scarsa organizzazione, molti si lamentano di un ulteriore peggioramento da quando si è calmato l’allarme Covid. Infatti, nonostante le code siano diminuite, l’Ufficio ci mette il doppio del tempo a fornire i documenti. E neanche la tensione è diminuita, tanto più che gli ufficiali si sentono in diritto di usare un contatto fisico non necessario per far mantenere le distanze di sicurezza.

«Ti urlano di aspettare all’interno dei quadri bianchi. È difficile, perché ti ricorda il processo che hai fatto per venire qui… molti di noi hanno perso molto, abbiamo vissuto cose difficili per arrivare dove siamo»

 

Non tutti comprendono la lingua e per gli addetti dell’ufficio non è facile farsi capire a gesti. Il nervosismo cresce, l’intonazione delle voci cambia e il volume aumenta. Almeno una pattuglia della Polizia è sempre in zona, pronta a far rispettare un ordine che anche a noi è difficile da comprendere. Così com’è difficile da comprendere il motivo di tanta prepotenza, visto che l’utenza di questo luogo non sembra richiederla: ci sono donne con bambini, studenti, giovani lavoratori o chi un lavoro lo vorrebbe disperatamente. 

«Io capisco che siano impazienti, c’è chi si presenta senza documenti o appuntamento, non hanno le risorse. Ma ci vuole solo organizzazione. O chi se ne occupa se ne sbatte, scusate il francesismo, o c’è qualcosa dietro che impedisce che le cose siano fatte meglio»

Alcuni compatiscono questo nervosismo da parte degli impiegati, e anzi si immedesimano in chi prova a svolgere il suo lavoro sotto un’evidente mancanza di organizzazione, risorse o semplicemente interesse nel rendere questo processo più semplice e veloce. Il problema è che la gente non ha dove recarsi. I servizi online o telefonici sono inesistenti e, nella giungla della burocrazia italiana, uno straniero ha tutte le ragioni di sentirsi perso. La Questura è l’unico luogo dove può sperare di trovare supporto.

«Io non ce l’ho con quelli della Questura. Loro fanno solo il loro lavoro… sono qui tutto il giorno a sentire gente che chiede di avere il permesso di soggiorno senza neanche un documento, non ci possono fare molto»

 

Una signora accompagna un uomo di 55 anni, conosciuto in ospedale anni fa. «La sua fidanzata stava male, con un tumore. Lui veniva sempre a trovarla. Poi lei è morta. L’ho rivisto tempo dopo, a dormire in strada…». L’ha ospitato in casa sua per un periodo e poi ha deciso di aiutarlo a rinnovare il permesso di soggiorno, in modo da poter cercare un lavoro, precedentemente perso per scadenza dei documenti ufficiali.

«Ci sono passata anch’io, Io so che non puoi solo andare là e aspettare che ti diano le cose: devi importi, insistere. Lui non insiste, va là e aspetta, e quando gli dicono di no, si arrabbia e se ne va. Non devi fare così, devi chiedere cosa non va e farti spiegare cosa portare»




L’uomo torna, è scoraggiato e visibilmente arrabbiato. L’hanno mandato via, ma non ha capito cosa vogliano. Lei rientra con lui, discute con la guardia. Stanno dentro per un po’ e alla fine escono e vanno via, delusi e amareggiati. Non si girano a salutarci.
Dalla Questura dell’immigrazione o esci deluso, o sollevato. Non è un luogo di indifferenza. Suscita emozioni, ricordi, ravviva dolori e ne crea dei nuovi. Da queste mura inadeguate traspira la speranza e la disperazione di un’umanità che non sembra essere considerata tale dalla nostra burocrazia. Colpa di un sistema nazionale disorganizzato, del Comune, o di una semplice indifferenza? Una dimenticanza, forse? Difficile da capire. Voci dicono, però, che a Napoli non è così, né a Genova, né a Palermo.
Mentre il sole che tramonta fa brillare la Nuvola Lavazza, gli ultimi della coda escono finalmente da un portone arrugginito. Là dentro hanno lasciato le loro impronte digitali, ma dai loro visi stanchi e dalle loro spalle pesanti sembra, piuttosto, che sia stato l’Ufficio di immigrazione della Questura di Torino ad avergli impresso addosso le sue.

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