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inversione di marcia

Come negli ultimi decenni il voto delle periferie si è spostato a destra

di gg

Ultimamente mi sono interrogato su una domanda oscura nella risposta quanto chiara nella sua curiosa evidenza: perché oggi, stando alle statistiche, la maggior parte dei voti ai partiti conservatori vengono dai residenti delle periferie, mentre fino a trent’anni fa era esattamente il contrario? Mi sono immediatamente scontrato con la complessità di restituire un responso univoco e completo ad una domanda tanto controversa e pregna di implicazioni, per cui riporto qui sotto semplici appunti che, anche se trattati con velocità, credo possano costituire un’utile base interpretativa. 

Un primo oggetto di analisi è necessariamente il mutamento del sistema produttivo, a cui è direttamente legato un cambiamento di ordine sociale. Alla fine della fabbrica di tipo fordista-taylorista – per lo più collocata nelle periferie dei centri produttivi – e al passaggio a nuovi sistemi di produzione fondati sulle automatizzazioni e orientate alla soddisfazione delle richieste di un mercato globale, infatti, è conseguito, in risposta ai mutamenti del mercato del lavoro, un affievolimento del senso di «classe», che ha portato alla dissoluzione della coesione interna al proletariato. Quest’ultimo, un tempo portatore di rivendicazioni omogenee legate al mondo operaio, è ora frammentato in una pletora di occupazioni diverse – sottotutelate e instabili – ciascuna portatrice della propria istanza particolaristica. Ne consegue che ciò che prima confluiva nel bacino elettorale dei grandi partiti «di massa», come il PSI e il PCI, con la scomparsa di questi ultimi è ora privo di una rappresentanza stabile e univoca. Com’è ovvio, ciò non significa che siano sparite le esigenze di uguaglianza sostanziale – la necessità di trattare diversamente situazioni differenti, principio cardine della nostra Repubblica -, ma soltanto i terminali istituzionali capaci di accoglierle e di fornire una risposta adeguata. Di pari passo, il processo di globalizzazione e la creazione di nuove professioni hanno portato all’allargamento del cosiddetto «ceto medio», legato spesso al centro cittadino, al quale hanno iniziato a rivolgersi i sedicenti eredi dei partiti di massa, abbandonando di conseguenza, con una linea più moderata e liberale, i bisogni di una classe lavoratrice sempre più eterogenea. Laddove la sinistra ha preferito coltivare il proprio risultato elettorale in lidi più felici, i partiti di una destra asseritamente sociale sono stati in grado di intercettare quelle stesse istanze e trasformarle in voti, adattandosi ad un tipo di elettorato diverso da quello a cui si erano sempre rivolti. Questo adattamento è però spesso sfociato nella demagogia: l’approfittare della disperazione dei ceti meno abbienti facendo promesse fondate su bisogni non sempre e non necessariamente reali guadagnando voti basati sulla suggestione, ad esempio creando la chimera di un nemico comune come espediente aggregativo, o utilizzando un linguaggio violento e artatamente “popolare”, con slogan spesso privi di contenuto politico e venduti come lo stesso programma del partito che li propone.

Un altro elemento di cambiamento che ha fortemente influenzato i giochi politici negli ultimi decenni è l’evoluzione del mondo dei media e il conseguente mutamento dei processi di formazione dell’opinione pubblica.  Nelle periferie, la progressiva dissoluzione e/o frammentazione delle comunità intermedie (scuole di partito, sindacati, ecc…), e quindi la scomparsa di un intermediario qualificato fra il cittadino e l’istituzione Stato, ha lasciato la strada spianata ai nuovi mezzi di informazione di massa. Così per esempio il fenomeno della TV privata utilizzata a scopo di propaganda politica non ha trovato la resistenza che veniva opposta dai filtri rappresentati dai centri di aggregazione sociale e culturale, dando ai politici la possibilità di fornire ai loro potenziali elettori l’interpretazione della realtà (dei suoi problemi e delle soluzioni) più immediata, fruibile e congeniale ai loro interessi. L’utilizzo di un certo tipo di televisione e, nell’ultimo decennio, soprattutto dei social media come palcoscenico del dibattito politico ha dunque dematerializzato la cura della cosa pubblica con l’effetto di esasperare il leaderismo – con ciò che ne consegue in termini di qualità del dibattito – e di provocare il totale scollamento dell’azione politica dal territorio su cui dovrebbe insistere.

Credo che la cura della componente più vulnerabile sia la cura più efficace del tutto. Credo quindi che emerga evidente la necessità di un rinnovamento dei luoghi di aggregazione e di scambio, per restituire un intermediario efficace anche a quei luoghi che non ce l’hanno più, restituendo ad ognuno il potere delle sue scelte di partecipazione democratica e ritrovando la bellezza di una politica che significhi connessione reale tra le persone.

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