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Perché lo sgombero di Edera Squat non è un buon segno.

di TT
Illustrazione a cura di Ester Baroni

Prime impressioni e spunti sullo sgombero di Edera Squat

A Torino si intravede l’alba, è il 3 ottobre quando la Digos entra nella casa occupata e autogestita in via Pianezza. È lo sgombero dell’Edera Squat. 

La palazzina è inserita nel quartiere di Lucento, famoso per essere un luogo periferico e privo di centri di aggregazione e di ritrovo. Al momento dello sgombero erano presenti 7 persone. 

L’operazione rientra nella strategia di lotta della procura torinese contro il ritenuto antagonismo dei centri sociali: si struttura iniziando con l’identificazione e l’attribuzione dell’appellativo «terroristi» ad alcuni attivisti, specie se No Tav, e finisce con lo sgombero di luoghi come l’Edera Squat. Come notizia quindi non stupisce. Il problema però è un altro. Come si legge su tutti i quotidiani locali, infatti, la reazione della destra torinese è immediata: «Finalmente dopo anni di battaglie contro il degrado, lo sgombero dell’occupazione anarchica Edera Squat è una vittoria per tutta la città» esultano Augusta Montaruli, parlamentare FDI, e Patrizia Alessi, capogruppo FDI in Circoscrizione 7, che rivolgono un appello al Comune: «Per prima cosa, il sindaco Lo Russo ordini l’immediata assegnazione dello stabile al quartiere come centro incontri veramente aperto ai giovani e agli anziani del borgo nel segno della legalità, altrimenti la rioccupazione sarà inevitabile. Ora tocca al centro sociale autonomo Askatasuna. La giunta PD dimostri se sta dalla parte della cittadinanza onesta o degli autonomi No Tav di corso Regina Margherita».

 

Perché accanirsi contro l’idea di centro sociale? Lungi dall’essere covi di criminali, i centri sociali in Italia svolgono un ruolo di presidio territoriale, funzione che viene troppo spesso dimenticata. 

Questo sgombero non è un buon segno. Non è un buon segno perché, oltre a non essere illegali e sovversivi come li descrivono alcuni, questi centri sono luoghi di comunità, sono importanti per molte persone, come il CSOA Gabrio o, a Milano, il Leoncavallo SPA (Spazio Pubblico Autogestito). Durante la pandemia, ad esempio, molti centri sociali del torinese agivano là dove alcune istituzioni facevano più fatica: spesa a domicilio per i più anziani, cibo per le persone meno abbienti e sportello psicologico gratuito. Oggi – come ieri – alcuni sono vissuti  come luoghi di musica e di cultura. 

Non intendo difendere a spada tratta tutti questi centri: non li frequento e non sono ciò che i sostenitori degli sgomberi riterrebbero un «antagonista», ma riconosco che svolgono un ruolo determinante in territori di cui nessuno si occupa. I centri sociali hanno sicuramente i propri difetti, ma chi li etichetta come «nemici» della cittadinanza non comprende e non rispetta la tradizione torinese di solidarietà: una tradizione che i centri sociali incarnano, piaccia o no. 

Forse bisognerebbe iniziare ad immaginarsi e a programmare pratiche solidali e sociali nei territori dei margini cittadini anziché sgombrare quei luoghi che a loro modo lo fanno. Quando ci saranno abbastanza presidi di cittadinanza, quando i servizi arriveranno in periferia e i luoghi abbandonati saranno gestiti in maniera decente… allora e solo allora, forse, non servirà più un centro sociale.  

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