di Tommaso Tropeano e Edoardo Carroccetto
Fotografie a cura di Frédérique Gélinas
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Torino è anche montagna. Oltre ai confini della nostra città, ci sono le montagne. Chiunque passi per Torino le può ammirare, sono a portata di mano.
Ci troviamo spesso a guardare la montagna come se fosse solamente un luogo in cui riposarsi nel weekend, dove fare una camminata o una grigliata con gli amici, ma se non fosse solo questo?
Considerando che la superficie montana della città metropolitana di Torino è il 52% e che, su 315 comuni della provincia, 143 sono classificati come “montani”, sarebbe molto importante portare questi territori al centro del dibattito sulla città . All’interno dei paesi montani ci sono persone e idee che potrebbero contribuire allo sviluppo e alla crescita della città. Perché non dare loro la possibilità di emergere?
Senza un’adeguata linea di trasporti come si può pensare di far cooperare e dar vita a progetti che coinvolgano strutture, persone e luoghi della montagna?
Perché non vedere la montagna, con le sue bellezze, come un luogo in cui tenere conferenze, mostre o aprire attività commerciali ?
Che cos’è l’innovazione metromontana? Possibilità o solo utopia?
A queste e ad altre domande ha provato a rispondere il professor Barbera, intervistato in Aurora nei giorni “primaverili” di febbraio.
– TT: Professor Barbera, da dove nasce il concetto di città metromontana?
F.B: Il concetto della città metromontana nasce da un progetto di De Matteis e dal gruppo di dislivelli (http://www.dislivelli.eu/blog/chi-siamo). Io e il Prof. De Rossi abbiamo ripreso il concetto nel nostro libro e abbiamo cominciato a diffonderlo e renderlo attuale nel dibattito pubblico. Questa operazione è riuscita. Basti pensare che la nuova giunta della città di Torino ha un assessore apposta per la città metromontana.
Il concetto di città metromontana è quindi un progetto culturale all’interno dell’associazione Riabitare l’Italia. Ne abbiamo poi altri tre: aree interne, giovani dentro (giovani che vivono nel margine) e il racconto dei borghi.
La città metromontana funziona perché è’ un’idea che, come tutte le parole d’ordine che hanno successo in politica, è sintetica e si comunica benissimo. Inoltre, questo concetto risponde anche alle necessità strutturali e insediative proprie del luogo: rispecchia la morfologia del territorio italiano. Le montagne sono molto vicine alle città, piccole o grandi che siano. Dal centro di Torino alla Val di Susa si arriva in un’ora. Lo stesso tempo serve per arrivare da qua (bar colonne in Aurora) alla fine di corso Francia.
– TT: Professor Barbera, possiamo parlare del legame che c’è fra la montagna e la periferia?
F.B: La montagna a Torino ha una forte tradizione medio-borghese ed è oggi una costruzione della borghesia. La montagna è vissuta, ad esempio, con le attività e i partecipanti del CAI. Se pensiamo quindi alla montagna come fruibile a livello popolare, questo non è il caso di Torino.
Questo è un paradosso. Le periferie sono spazialmente più vicine. Da Torino nord alle valli di Lanzo ci metti di meno che dalla Mole Antonelliana. C’è però un uso della montagna che segue molto il modello «merenderos». Questo potrebbe cambiare verso forme di utilizzo più vicine a quelle del ceto medio borghese: più sostenibile ed escursionistico ma anche sociale. Prendiamo la montagna terapia o il welfare di montagna come diciamo nel libro su Torino 2030. La montagna può produrre welfare e produrre ricchezza. Queste sono funzioni urbane negate alla montagna. Storicamente la ricchezza era il turismo e lo sci ma è opportuno chiedersi: cosa rimane alla montagna? La ricchezza non rimane sul territorio ed è solo legata al turismo. In effetti, la montagna e il suo sistema di welfare sono come il fiume Po. Perché i ragazzi di Barriera non partecipano ai circoli canottieri? Lo stesso avviene in montagna anche se quest’ultima avrebbe aspetti molto positivi in termini di salute, inclusione sociale, economica…
Tutto questo richiede progetti di filiera che partono dalla città e arrivano alla montagna. Bisognerebbe mettere insieme la domanda di montagna nelle città e l’offerta di montagna che arriva da questi territori. Si potrebbe, ad esempio, strutturare una partnership fra le case alpine e le case del quartiere di Torino con i loro beneficiari.
La montagna non ha solo bisogno della città ma è un territorio che ha potenzialità. Per questo motivo, io sono contro l’idea di «adottiamo un borgo». Bisogna adottare alleanze tra attori più deboli e attori più forti che puntino a generare valore comune e condiviso. C’è poi tutto un lavoro da fare su secondo welfare e welfare aziendale. Ci sono risorse dei territori che possono essere utilizzati e rimanere alla montagna attraverso processi di economia circolare. Pensiamo ad esempio al tema delle colonie. Torino ormai con il cambiamento climatico diventa invivibile per molta parte dell’estate. Con la montagna ad un’ora di distanza e un ampio patrimonio immobiliare disponibile si potrebbero formare delle colonie over 65 per passare il periodo più caldo ad un’ora da Torino. Bisogna ragionare sulla doppia residenzialità. Questo però richiede risorse e politiche condivise di largo respiro.
– TT: Le istituzioni che visione hanno su questo tema? Con il cambio di amministrazione è cambiato qualcosa?
F.B: Un po’ ci siamo. La Città metropolitana con Elena Di Bella si è mossa bene, anche se rimane una debolezza strutturale della città metropolitana come ente. Il meccanismo elettorale con la designazione del sindaco e dei consiglieri porta ad una forma di governo molto debole. Torino ha fatto qualcosa di sperimentale e l’attenzione verso questa tematica è cresciuta esponenzialmente. La pandemia ha avuto un ruolo e i fondi PNRR possono andare in questa direzione. Università e Politecnico potrebbero usufruire di questi territori sia per i benefit aziendali sia in funzione didattica (con convegno estivo, attività post master…). Un esempio era la summer school sulle aree interne ad Ostana. Luoghi come questo portano le persone a lavorare in modo completamente differente. La montagna, però, rischia di sembrare uno sfondo, un orizzonte. Torino ha perso la sua identità montana e la funzione di città alpina (come invece può essere Innsbruck)
– TT: Tutto ottimo, prima si parlava di una gita domenica ad un’ora di distanza in macchina e ci siamo… ma se io volessi andarci con i mezzi di trasporto pubblici?
F.B: Questa è la conseguenza della mancata integrazione: prendiamo gli orari dei treni e degli autobus… non sono sincronizzati. Ma è normale?
Dovremmo pensare ad una intermodalità condivisa che metta insieme almeno treno e autobus, magari anche la bicicletta. Certamente c’è anche il tema aree interne e servizi di prossimità.
Dovremmo pensare anche alla valorizzazione di queste aree. A Torino c’è un menu montano? Un menu delle valli di Lanzo? Se non ci sono, questo vuol dire che non è una città alpina, ma solo che ha le montagne alle spalle. Ciò deriva da un distacco traumatico tra le città del nord ovest e le montagne. Modelli di sviluppo e industrializzazione hanno portato a questa situazione . Nel Nord-Ovest c’è rottura e non c’è un continuum urbano, come ad esempio nel Trentino con una politica di presidio e dell’integrazione montana nella città.
Il punto è che, politicamente, investire nella montagna non paga. Il disegno dei collegi elettorali si mangia la sua centralità. Prima con le comunità montane e tutti i loro difetti, però, esisteva un luogo che offriva percorsi di investimento politico. Il politico locale aveva una carriera volta a rappresentare il territorio ed era sostenuto da quest’ultimo. Oggi non c’è più e vengono meno le istituzioni intermedie. Ci saranno solo macro collegi: tutta la Val Maira pesa come Santa Rita [ quartiere della circoscrizione 2 di Torino, ndr].
La strategia, quindi, dovrebbe essere quella di creare reti strutturate forti e politiche di sviluppo tra attori forti e deboli.
– TT: Può spiegare meglio questo tema fondamentale?
F.B: L’ecosistema dell’innovazione sociale, tra Politecnico e Università, ad esempio può portare a politiche di connessione in cui sono gli interessi della città a spingere per il bene della montagna. Se lasciamo tutto solo agli attori della montagna, i più forti sono poi quelli che agiscono seguendo delle logiche estrattive come gli impianti da sci.
– TT: Per esperienza personale sto studiando il dossier di Milano-Cortina 2026. Ci sono dei territori lontani e ci sono anche delle valli in mezzo e di passaggio. Come promuovere anche questi territori?
Il tema delle valli di mezzo è difficile. Quelli sono luoghi strani con dinamiche economiche simili a quelle della città ma con una diversa demografia.
– TT: Questa idea di città metromontana nell’ottica di policy riesce anche a cambiare la prospettiva per i territori di mezzo tra la periferia e la montagna?
F.B: Non è semplice, perché, ad esempio, la metromontagna non contempla questi territori di mezzo, questi “pezzi di periferia” che possono diventare cerniere tra la città e la montagna. Forse in questo senso il tema è quello, piuttosto, della «brutta Italia», cioè la vita dei luoghi in cui un turista non vuole andare. I territori metromontani non sono così. Pensa ad un posto, però, come Santhià. Io ho scritto un capitolo contro il concetto dei borghi su questo tema. Quella è l’Italia di mezzo. Sono luoghi fuori dallo storytelling anche rispetto ai territori montani che, invece, lo hanno. Sono però territori molto importanti sia in termini dimensionali che economici che in termini di persone che li vivono. Ci sono moltissime opportunità da costruire, in termini di narrazione, di politiche pubbliche, di progettualità. Tutto da costruire. Quella è una bella direzione e c’è in qualche modo nel messaggio di De Matteis. Queste città potrebbero essere di cerniera e offrire dei servizi di cittadinanza (welfare di prossimità, co-working). Attrezzare questi luoghi per la cittadinanza, il lavoro e l’integrazione potrebbe essere interessante.
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