di Francesca Brunori
Fotografie di Via Baltea
Intervista a Sara Medici di Sumisura, la cooperativa che ha progettato e dato vita a Via Baltea: il community hub di Barriera di Milano.
Quando sono arrivata a Torino da fuorisede Barriera di Milano mi è stato presentato come un quartiere complicato, un luogo al margine del centro difficile da scoprire e ancor più da decifrare. Poi ho sentito parlare di Via Baltea e ho deciso di provare ad addentrarmi in questo spazio con l’aiuto di Sara Medici, operatrice sociale e socia della cooperativa Sumisura che ha creato Via Baltea nel 2014.
È un pomeriggio di fine dicembre quando ci incontriamo al bar di Via Baltea. Il locale è pieno di vita, voci e colori, uno spazio creato per e dalla comunità. Un luogo che vuole raccontare un modello alternativo di vita in città, attento alla sostenibilità e alla specificità delle persone, che sono l’ingrediente principale di questa realtà.
Com’è nata Via Baltea?
«Via Baltea nasce nel 2014 da un progetto che è diventato quasi una necessità della cooperativa. Lavoravamo tutti nell’ambito della rigenerazione urbana, anche se con professionalità e studi diversi. Molti di noi hanno lavorato e lavorano tuttora alla casa del quartiere di San Salvario, dove abbiamo disegnato e costruito insieme un nuovo modello di gestione dello spazio pubblico: una casa aperta a chiunque. Quando nel 2012-2013 sono diminuiti drasticamente i progetti di rigenerazione urbana della città di Torino, ci siamo resi conto che le alternative erano due: o ognuno di noi cercava possibilità per conto proprio, oppure investivamo tutto sulla cooperativa». E così è stato. Oggi Via Baltea è un progetto di rigenerazione urbana con impatto sociale e culturale: un community hub creato dalla riqualificazione di un’ex tipografia che è stata trasformata in uno spazio per la comunità, un luogo che ha l’obiettivo di integrare le attività commerciali e produttive con la costruzione di relazioni solidali.
«Tramite FaciliTo, azione del programma Torino Social Innovation volta a sostenere l’avvio di progetti imprenditoriali nel campo dell’innovazione sociale, abbiamo ottenuto dei fondi agevolati e ci siamo imbattuti in questo posto. Si tratta di uno spazio privato, vi è quindi la necessità di incastrare i desideri sociali con i bisogni economici. Si cerca sempre l’equilibrio tra la gratuità dei servizi, l’apertura a tutte le persone e gli introiti necessari per mandare avanti il progetto. Per questo abbiamo cercato subito dei partner forti: i primi sono stati il forno di Panacea e il Jazz Club. Abbiamo fatto degli accordi per far sì che chi fosse entrato in questi spazi ci avrebbe investito e li avrebbe riqualificati, perché lo spazio è enorme e non avevamo la possibilità di sistemare tutto. È nata quindi l’idea dei soci investitori: persone che si sono associate alla cooperativa senza essere lavoratori e lavoratrici e che hanno investito delle quote, permettendoci di aprire».
Il punto di forza di questo progetto è stato, ed è tuttora, l’indeterminatezza: la capacità di revisionare i piani in corso d’opera. «Sapevamo di avere un contenitore che si chiamava Via Baltea ma non avevamo definito tutti i contenuti che ci stavano dentro, quelli sono arrivati piano piano. Una parte l’abbiamo disegnata con le associazioni e con i cittadini attivi che sono arrivati e ci hanno fatto delle proposte, un’altra parte l’abbiamo costruita in base alle esigenze che sono emerse nel corso del tempo. Non abbiamo disegnato tutto ma siamo stati in grado di immaginare e revisionare il nostro progetto in corsa, cosa fondamentale sia per progetti di impresa sia per progetti culturali e sociali. Non tutto è prevedibile, avere un piano ben delineato con obiettivi e risultati attesi è importante ma allo stesso tempo bisogna essere capaci di saperli modificare in base alle necessità contingenti».
Che ruolo ha il diritto al bello nella vostra progettualità?
«La nostra idea è sempre stata quella di avere uno spazio che diventasse un’antenna per lavorare sul quartiere, ma ci abbiamo messo tantissimi anni a realizzarla. Gestire un posto così e imparare a gestirlo non ci ha mai fatto uscire dal portone, il che è stato abbastanza sconfortante perché ci sembrava di non riuscire a fare il nostro lavoro. Ora va molto meglio, abbiamo accresciuto il gruppo di lavoro e questo ci ha permesso di ricominciare a fare quello che sappiamo fare meglio: cucire e attivare progettualità. Finché non abbiamo avuto la possibilità di farlo però abbiamo costruito dentro Via Baltea degli spazi belli che raccontassero la nostra idea di rigenerazione urbana. Sicuramente avere degli architetti nel gruppo ha aiutato, ma in generale è stato il condividere l’idea di cura quotidiana, anche tramite il recupero e il riciclo di oggetti portati da persone del quartiere. Il fatto di passare tanto tempo qui ci ha permesso di trattare questo posto un po’ come casa e di prendercene cura come tale. Forse senza rendercene conto abbiamo fatto un lavoro di trasferimento di questo senso di cura, un lavoro di presidio che abbiamo fatto noi, ma che poi abbiamo trasferito alla comunità ed è stato prezioso sia per il gruppo di lavoro sia per tutte le persone clienti-utenti-beneficiarie che sono passate di qui. Perché arrivare in uno spazio bello, in cui è evidente la cura, spinge chi lo usa a prendersene cura a sua volta. Le cronache giornalistiche raccontano Barriera come un quartiere sfigato, pieno di problemi e fragilità, in realtà ha un tessuto associativo fortissimo e i cittadini che vogliono farsi coinvolgere sono molto attivi e molto attenti alle iniziative sul territorio, quindi c’è una risposta forte da parte della comunità al nostro progetto. Anche altre realtà nel quartiere hanno tantissimi volontari: l’investimento e l’educazione al bello, alla cura, al rispetto vengono coltivati continuamente. Noi, ad esempio, abbiamo progettato il lido pedonale e anche quest’anno allestiremo e metteremo a disposizione alcuni arredi e sarà un po’ una scommessa, vedremo come reagirà la comunità, come verranno trattati questi oggetti, se ne porteranno altri partecipando all’abbellimento dello spazio. Ci consideriamo degli attori attivi, costantemente presenti: siamo qui e continueremo a prenderci cura della pedonale con la comunità del quartiere, tramite una sorta di patto di collaborazione con i cittadini per far sì che chiunque possa sentire suo questo posto».
bell hooks parlava del margine come di un luogo di possibilità e resistenza: che impatto sta avendo Via Baltea sulla comunità?
Via Baltea è un presidio, è la testimonianza di un modello alternativo di gestione dello spazio che può stare in piedi grazie ad una strategia commerciale che è venuta a delinearsi nel corso del tempo e a dei valori specifici: una visione di vita in comune. In questo senso è una scelta politica, un modello di vita in città che può essere replicato in diverse misure. Non può essere semplicemente esportato perché ogni progetto deve essere attento alle specificità del contesto in cui opera, tenendo in considerazione che l’ingrediente più importante sono le persone che portano avanti il progetto e che devono avere la voglia di confrontarsi costantemente con una visione comune in continua evoluzione. Ad esempio, negli ultimi anni abbiamo iniziato a lavorare molto su una nostra produzione culturale, per permettere una fruizione dello spazio tramite attività gratuite. Come il cinema all’aperto o gli spettacoli organizzati al lido, proprio per dire a chiunque che quelli erano eventi gratuiti anche in uno spazio privato. E credo che la conformazione di Via Baltea abbia aiutato a corroborare quest’idea perché tutta la struttura ruota attorno al cortile quindi tutti i partner, tutte le associazioni, tutte le persone che entrano ed escono finiscono nel cortile e prima o poi si siedono al tavolino e magari si incontrano. Il nostro ruolo è quello di favorire la commistione tra le varie realtà: siamo generatori di opportunità e di progettualità, un contenitore con tante realtà dentro».
Nelle sue evoluzioni Via Baltea è diventata anche uno spazio attivo e concreto per formare persone, spesso straniere o con fragilità, che hanno bisogno di spazi protetti per inserirsi nel mondo del lavoro. «Questo ci ha permesso di costruire un filone di lavoro per la nostra cooperativa che non avevamo previsto, non l’avevamo visto quando abbiamo aperto. È una parte che non conoscevamo e che invece oggi è una parte molto importante di Via Baltea, la formazione e l’inserimento lavorativo sono parti molto ricche su cui abbiamo poi investito in termini di progettualità. Attualmente stiamo cercando di coinvolgere e di tenerci stretti i giovani, necessari affinché questo posto continui ad esistere, evolva, abbia nuovi laboratori. Il servizio civile ci sta permettendo di avvicinarli a Via Baltea in modo diverso rispetto all’inserimento lavorativo al bar o in cucina, perché permette di fare anche tutte le altre attività che svolgiamo qui, come la gestione degli spazi, delle attività culturali, la progettazione di alcuni bandi e tante altre cose, quindi poi quelle persone hanno delle competenze più ampie e più spendibili per noi».
Via Baltea è un luogo di aggregazione, scambio e commistione prezioso, un cuore pulsante in uno dei quartieri più movimentati della città di Torino, che troppo spesso viene dimenticato e, soprattutto, mal raccontato. Nel generare opportunità e cucire progettualità Via Baltea offre anche una contronarrazione di questo luogo al margine del centro e racconta un nuovo modo di vivere lo spazio, in comunità e con un’attenzione quotidiana alla cura delle altre persone e dei luoghi che si attraversano e si vivono. Tra i suoi elementi più preziosi, per me come per tante altre persone che approdano da nomadi in questa città, vi è senz’altro la capacità di avvicinare a Barriera di Milano chi solitamente non abita questi spazi. Il suo ruolo di antenna e presidio del territorio permette infatti a Via Baltea di aggregare e creare connessioni tra persone e specificità diverse, arricchendo il tessuto sociale di un quartiere che potremmo e dovremmo imparare a vivere e curare di più.
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