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We are the Champion, amiche mie

di Marianna B.

L’ombra del calcio femminile in una Torino in overbooking

Maggio ha visto la città di Torino affollarsi di eventi culturali, politici, sportivi, a un’intensità davvero al limite del sostenibile.
Solo per l’Eurovision (dal 10 al 14 maggio), i visitatori sono stati oltre 30.000 e i pernottamenti, saliti del 68%, hanno fatto schizzare alle stelle i costi di qualsiasi camera d’albergo o divano letto su Airbnb, in città e fuori. Un ragazzo appena sceso da un Flixbus che arriva da Barcellona mi racconta, in un assolato 13 maggio, che pernotterà a Candiolo, il posto più vicino in cui ha trovato una camera a meno di 100 euro a notte.
Il 19 maggio la città ha ospitato il Summit dei quarantasei Ministri degli Esteri europei, evento che ha isolato alcune zone del centro tramite misure di massima sicurezza. Dal 24 maggio al 6 giugno un’altra parte della città è stata bloccata per le riprese del prossimo film della saga di Fast and Furious; attività, anche questa, che ha richiamato una grande attenzione e attirato un numero considerevole di appassionati visitatori.
In tutto questo, un altro evento ha riempito le strade di due bandiere: quella del FC Barcelona e quella dell’Olympique Lyonnais, che hanno disputato la finale di UEFA Women’s Champions League il 21 maggio allo Juventus Stadium. La partita ha portato in città numerosi gruppi di tifoseria, in particolare della squadra catalana, ma a Torino se n’è parlato pochissimo. Il pubblico torinese (o in generale italiano) non ha praticamente partecipato all’evento: le persone che si sono recate allo stadio erano quasi tutte straniere, per la maggior parte spagnole.
Abbiamo ascoltato le voci di Roser, una tifosa del Barcellona di 27 anni venuta apposta in trasferta per supportare la sua squadra, e quella di Nina, una ragazza torinese di 25 anni che lavora come cassiera in un chiosco che vende bibite allo stadio, per farci raccontare il loro punto di vista sulla finale. Entrambe hanno detto che a vedere la partita c’erano molte più ragazze del solito, anzi, probabilmente c’erano più donne che uomini e quasi nessun uomo italiano (o, almeno, loro non ne hanno visti o sentiti). Secondo Roser «è scontato che sia così quando giocano le ragazze, anche se non dovrebbe esserlo». Il tifo dunque non è qualcosa di inter-, ma di intra-gender: le donne si supportano da sé e la stessa cosa (per la maggior parte, ma in maniera meno netta) vale per gli uomini.
Lo stadio era abbastanza pieno, ma non al completo; soprattutto, la prenotazione dei posti in alcune aree non era disponibile, probabilmente in previsione, già in partenza, di un afflusso limitato all’evento.
Nina, che di partite allo Juventus Stadium ne ha vissute un po’, mette infine in evidenza una serie di differenze sostanziali tra le partite di calcio maschile e femminile. Innanzitutto, dice che l’ambiente della Continassa era decisamente più tranquillo del solito: un ambiente di festa più che di competizione. Inoltre, racconta di essere rimasta stupita dalla partecipazione numerosissima di persone giovani, decisamente sotto la media d’età dei soliti spettatori abbonati allo stadio. Però, attribuisce al fatto che si trattasse di una partita femminile anche la scarsa pubblicità che la città ha fatto all’evento: poche persone erano informate, pochissime le réclames per le strade. Si pensi persino che durante la partita, cercando gli aggiornamenti in diretta sui punteggi, non se ne trovavano i risultati, che sono stati pubblicati solamente alla fine dell’incontro, cosa assolutamente inusitata per qualsiasi partita di calcio maschile, figuriamoci per una finale di Champions League.
Anche il costo dei biglietti era sproporzionatamente basso: i biglietti per la finale di Champions maschile, giocata appena una settimana dopo a Parigi, costavano, come minimo, intorno al centinaio di euro. Quelli della partita femminile di Torino, una decina. Spesso, dice ancora Nina, le partite della Juventus femminile sono addirittura gratuite.
Finalmente, però, dal luglio 2022 il calcio femminile diventerà uno sport professionistico: prima non lo era e ciò comportava che le calciatrici non potessero firmare veri e propri contratti di lavoro con le società sportive, ma soltanto accordi privati non riconducibili a nessun contratto collettivo e che lasciavano le atlete senza alcun tipo di protezione, tanto dal punto di vista della tutela della maternità, quanto da quello dei minimi retributivi e della durata del rapporto, quanto ancora dal punto di vista contributivo e previdenziale. Con l’accesso al professionismo anche la situazione finanziaria migliorerà, ma resta il fatto che fino ad adesso, in Italia, lo stipendio medio di una giocatrice in Serie A si aggira attorno ai – anzi, non può superare i – 30.000 ca. euro lordi all’anno, contro quelli da decine di milioni di euro di numerosi giocatori maschi.
Delle eventi di maggio, la finale di Champions femminile è stata quella meno pubblicizzata e comunicata: e se si fosse trattato della finale di Champions maschile, sarebbe andata così? Sicuramente no, l’attenzione portata sull’evento sarebbe stata decisamente diversa e probabilmente Torino non avrebbe retto, a pochi giorni dalla fine dell’Eurovision, l’organizzazione di un evento come una finale di Champions League maschile. Quella femminile invece era alla portata, soprattutto se nessuno lo sapeva. Questo ci conferma che nel nostro Paese il calcio è ancora uno sport precisamente e intenzionalmente direzionato verso un genere, anche per quanto riguarda le scelte economiche e le politiche di comunicazione e promozione pubblica degli eventi ad esso legati. Lo stesso discorso vale per molti sport e per molte professioni, dove la parità di salario e l’accesso a cariche alte sono ostacolati ancora da una discriminazione di genere che relega le donne ai gradini più bassi degli spalti a tifare per se stesse tra di loro, mentre l’omologo al maschile porta a casa decine, se non centinaia, di  milioni di euro all’anno.

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