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Il carcere non è Mare Fuori

Lettera di Gianmarco, volontario di Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale

«Il carcere non è teatro di storie romantiche, di intrighi e gialli irrisolti, di rivalsa e di speranza: il carcere è un luogo di sof-fe-ren-za. Punto».

di Gaia Giangrande

Lettera di Gianmarco Onorati

Illustrazione a cura di Ester Baroni

Molteplici prospettive evocano differenti immagini. Approcciarsi al carcere risulta sempre un terreno friabile, pronto a sgretolarsi in ogni momento. Bisogna avere delle conoscenze pregresse quando si decide di avvicinarsi a questa realtà. Bisogna avere chiara la situazione che si sta per affrontare per poterla analizzare e capire. Tutte le convinzioni che si hanno dall’esterno vengono messe al muro e poi stravolte. Il carcere non è ciò che immaginiamo.

Gianmarco ha deciso di testimoniare la sua esperienza di volontariato con una lettera che riportiamo di seguito.

«Mi chiamo Gianmarco, ho 24 anni e a Roma mi sto per laureare in giurisprudenza. L’ambizione per una carriera in magistratura e l’attenzione per il sociale mi hanno spinto a sostenere l’associazione Antigone, da sempre schierata dalla parte degli oltre 56.000 detenuti che oggi occupano le carceri italiane. Con Antigone svolgo da oltre un anno e mezzo uno sportello legale attivo nel carcere di Regina Coeli, dove fornisco, ovviamente a titolo gratuito, consulenza ai detenuti in merito all’esecuzione della loro pena. Nel settembre del 2022, proprio con Antigone ho avuto la possibilità di effettuare una visita al carcere “Lorusso e Cotugno” di Torino, nato negli anni ’80 con il nome “Vallette”. La visita era legata ad un evento in particolare: neanche un anno prima, nel novembre del 2021, era stato chiuso il reparto del carcere preposto all’osservazione psichiatrica dei soggetti ristretti (il nome corretto è Articolazione per la salute mentale), chiamato “Sestante”. Da moltissimo tempo era partita un’innumerevole quantità di segnalazioni e denunce, anche e soprattutto da parte di Antigone, sui fatti che avvenivano in quel reparto, in che modo i soggetti lì rinchiusi fossero lasciati in condizioni inumane, in celle lisce, senza luce né acqua. Di come venissero maltrattati, a volte persino torturati. Chi non è mai entrato in un carcere, chi non ha mai neanche visitato un luogo del genere, fa fatica a comprendere ciò che si prova. Purtroppo, spesso il nostro istinto viene sopraffatto dall’immaginazione e dagli impulsi che ci vengono dai vari film e serie-tv che trattano l’argomento (soprattutto di questi tempi, dopo il boom di “Mare Fuori”). Il carcere non è teatro di storie romantiche, di intrighi e gialli irrisolti, di rivalsa e di speranza: il carcere è un luogo di sof-fe-ren-za. Punto. Ogni istituto ha una struttura diversa, una qualità di vita (purtroppo) diversa, ma tutti hanno questa caratteristica: in carcere si soffre, e pure tanto. Se dovessi, nonostante la mia poca esperienza (Le Vallette è stato solamente il quinto carcere che ho visitato) dare un voto all’istituto di Torino, lo promuoverei con un 7, tenendo conto delle molte iniziative presenti, degli spazi tutto sommato vivibili e soprattutto del paragone che faccio con altre carceri, messe decisamente peggio. Tuttavia, non serve dire che la nostra visita mirava principalmente a capire se le cose a Torino fossero cambiate dopo i fatti del Sestante, nonostante quella sezione non esistesse più. Quando vi è una visita istituzionale in carcere, quando giornalisti o persone esterne riescono ad ottenere un’autorizzazione del genere, di solito si dice che inizia il gioco “dell’acquario e i pesci rossi”: i pesci che nuotano in un acquario credono di essere nell’oceano, di vedere e di poter nuotare in tutta l’acqua esistente. Allo stesso modo, chi visita un carcere pensa di visitarlo tutto e di vedere ogni sua parte. La realtà è che alcune zone, alcune cose che avvengono lì dentro, non possono e non voglio essere mostrate. Per questo c’è ancora e sempre più bisogno di parlare di queste realtà, a noi così remote e inaccessibili. A Torino non c’è più il Sestante, ma ogni giorno (ovviamente non solo lì, ma in tutte le carceri d’Italia), persone che si trovano ristrette, che stanno pagando per i loro errori, rischiano di subire gravi ingiustizie, gravi privazioni dei diritti umani che, ricordiamoci, mantengono, nonostante siano detenuti. Cosa ancora più grave, c’è il rischio che tali ingiustizie non vengano mai scoperte».

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